Avellino

I TheRivati per la prima volta ad Avellino (al TILT). Il 28 aprile si è tenuto il concerto in occasione dell’ultima data del loro tour “#Escile”. Ma chi sono questi ragazzi? Da Cimitile (NA) portano il blues napoletano in giro per l’Italia. Ci risponde Paolo “Zimmerman”, la voce del gruppo (accompagnato da: Marco, “Cassio” - chitarra; Saverio, “Prof” - sax; Stefano, “Frank – batteria; Antonio, “Tony” - basso). Condividono tutti la passione per la buona musica e… per le tette.

Cosa vi ha spinti ad iniziare?

«Scrivevamo canzoni da tempo ma le tenevamo per noi. Guardandoci intorno e vedendo che c’era parecchia musica di merda in giro, abbiamo pensato che provarci non costava nulla».

Come mai la scelta del funk-blues come genere?

«Abbiamo da sempre la passione per la black music. Nel panorama italiano c’erano, e ci sono ancora poche band che fanno questo genere. Solchiamo l’onda di Pino Daniele. Abbiamo cominciato ad approfondirlo proprio nel periodo in cui stava per nascere il nostro sound».

Come è venuto fuori questo nome?

«Non c’è una storia dietro il nome “TheRivati”. Una volta Frank (Stefano) ci propose questo nome ed è piaciuto a tutti. E’ uscito fuori, è stato il nome a scegliere noi».

Oltre Pino Daniele, a chi vi ispirate?

«In Italia seguiamo tutta la Neapoletan power che fa parte della nostra tradizione. Pino, Napoli Centrale, Enzo Avitabile. Prima di noi ha fuso la black music con la musica napoletana e italiana. Veniamo da ascolti differenti, il sound TheRivati si è creato poi fondendo i vari ascolti».

Cos’è per voi la musica?

«E’ tutto. Può sembrare banale ma è così. Viviamo di musica, lavoriamo con la musica. Le cose importanti per i TheRivati sono tre: le tette, il cibo e la musica».

Black from Italy” è il titolo del vostro ultimo album. Cosa significa?

«Siamo un po’ ossessionati dalla parola “black” che richiama al nome del genere musicale. Le tematiche del disco parlano di disagio. Dai pregiudizi sull’Italia in generale,all’emigrazione che ci tocca molto da vicino. Il black è un po’ il nero che viene dall’Italia».

Il vostro brano “Emigrante” parla di ragazzi italiani che vanno via. Cosa pensate dell’emigrazione?

«Molto spesso è fondamentale emigrare. Una quesitone vitale. Il problema è quando bisogna andare via per forza, quando si è costretti. Noi giovani italiani siamo costretti ad andare via perché non ci sono possibilità. Questo è atroce».

Supportati da San Gennaro. Quanto siete legati alla vostra terra e come migliorereste le cose qui?

«Bisogna cambiare mentalità ed avere la consapevolezza di avere un patrimonio unico. Il napoletano è unico, ma non bisogna cullarsi su quest’aspetto. Sei unico fino ad un certo punto. Bisogna anche cercare di migliorarsi e migliorare altrimenti non si va avanti. In generale, in Italia, siamo un po’ passivi. Arriviamo sempre dopo. C’è la paura del nuovo, del cambiamento. Accettiamo il nuovo solo dopo che si è consolidato da altre parti.

Siamo molto legati alla nostra terra. Abbiamo un forte amore per Napoli e per la provincia, provenendo da lì. Una terra che ci ha cresciuti e formati tra molte difficoltà».

Il genere tipico dei ragazzi, al momento, è il rap. Come fare ad avvicinare i ragazzi al blues?

«Manca una cultura del blues in Italia. Ovviamente i teenager sono attratti dalle mode. O si aspetta la moda che in qualche modo ritorna sempre oppure radio e TV dovrebbero iniziare a tenere più in considerazione questo genere. Deve iniziare ad andar di moda la Musica e non la fashion blogger che fa il disco».

Avete fatto pezzi straordinari. “Solo un giorno nel quartiere” con Clementino. E’ stato difficile fondere, in questo caso, il blues e l’hip hop?

«Non è stata una cosa studiata a tavolino. Ci ha dato una grande mano O’ Luong, il produttore del pezzo. Il nostro pezzo già esisteva, Clemente l’ha scelto e lavorando insieme è uscito quel sound».

Qual è l’obiettivo dei TheRivati?

«La cosa che ci piacerebbe davvero fare è salire su più palchi possibili. Principalmente facciamo musica per suonare dal vivo più che fare dischi. Vogliamo arrivare su palchi importanti e suonare davanti a più gente possibile».

Quanto è difficile questo mestiere?

«Tantissimo. Anche la musica è in un periodo di crisi totale. E’ difficile perché le spese sono tantissime. Dalle prove alle registrazioni alle telefonate da fare per prendere una serata. Tutto ciò non è bilanciato con quello che si ricava dalle serate o con la vendita del disco. E’ difficile vivere di questa roba. Viverci, anzi, è impossibile fino a quando non si fa il salto di qualità. La gavetta dura molto, poi dipende, ci sono casi speciali che nel giro di pochi anni diventano famosi e poi si ritrovano sconosciuti».

Chi è Mr. Johnson a cui è dedicata una vostra canzone?

«“Mr. Johnson” parla della vicenda di Robert Johnson. Un bluesman vissuto negli anni ’20. E’ stato il primo a morire a 27 anni. Con lui è iniziato il Club 27. La leggenda narra che non sapesse suonare nulla. Un giorno incontrò il diavolo a un incrocio e cominciò a suonare il blues».

Come vedete il vostro futuro?

«Cerchiamo di pensarci il meno possibile. A breve termine non si realizza mai nulla, figuriamoci a lungo termine. Il mondo in cui viviamo oggi è segnato dall’ansia per il futuro».

Giuseppe Forino*

*(studente del Vivaio di Ottopagine, corso di giornalismo multimediale organizzato nell'ambito dell'iniziativa scuol/lavoro)