Benevento

Parli del vino, nelle nostre terre, e ti si apre un universo immenso di suoni, di colori, di splendori unici.
Perché è la bevanda che hai imparato a conoscere sin da piccolo, quella che furtivamente ti versavi nel bicchiere, mezzo dito, ma nemmeno, per carità, sin da quando eri poco più che un ragazzino, così, giusto per provarne il gusto e scoprire perché i grandi, senza vino, a tavola, non si sedevano nemmeno a ragionare.


Di quell’ “umore” e degli umori, i più diversi, che esso suscita, hanno detto, nel linguaggio che a loro è più consono, quello attoriale, naturalmente, Michelangelo Fetto e Antonio Intorcia, fondatori ed operatori della Solot, con Rosario Giglio e Massimo Pagano, felici “innesti” partenopei di una Compagnia che, nel suo percorso, si è posta con forza l’obiettivo di raccontare il territorio, dal punto di vista storico e culturale.
Detto fatto, questa volta è il vino il protagonista del racconto.


“Salute”, quarto appuntamento per “Obiettivo T”, al Mulino Pacifico, in replica stasera, alle 18, comincia con il prologo ordinato e tradizionale di Antonio Intorcia che alla “buona gente” intervenuta allo spettacolo comincia a raccontare del “perché” e del “percome” delle origini della denominazione della “sincera” bevanda. Secondo una delle teorie più diffuse, il termine “vino” deriverebbe dal sanscrito “vena”, formato dalla radice “ven”, che significa "amare". E, non a caso, dalla stessa radice deriva “Venus”, Venere. Altri, invece, parlano di “vi”, “frutto della pianta che si attorciglia”.


Troppe chiacchiere, per chi vuol narrare, piuttosto, delle meraviglie che lo splendido “umore” è in grado di compiere fra gli umani…Come quell’ubriaco che, “nei fumi dell’alcool”, racconta della volta che alle Nozze di Cana, si trovò ad assistere ad un prodigio compiuto da un giovane biondo e di aspetto fine (sic!) che, su richiesta della madre, trasformò l’acqua in vino, per una festa di matrimonio che altrimenti sarebbe andata in malora.
E’ la famosa “giullarata” di Dario Fo, da “Mistero Buffo”, qui riproposta con un napoletano “grammelot” da Rosario Giglio, abile nei tempi comici a ripercorrere la vicenda ben nota. E’ un attimo . E’ già tempo, a proposito di ricchezza del territorio, di raccontare, attraverso la “singolar tenzone” dei duellanti Massimo Pagano ed Antonio Intorcia, la nota disputa fra i vini del territorio: la bianca Falanghina, che volentieri accompagna il pesce e le pietanze più delicate, ed il rosso ed impegnativo Aglianico, che serve i piatti di carne più saporiti. Entrambi sopravvissuti, grazie alle cure degli appassionati, alla fine certa, decretata dalla moda dei vini internazionali...


C’è dunque il tempo perché Michelangelo Fetto, autore e regista del testo, con la collaborazione culturale di Carla Visca, organizzazione di Paola Fetto, prepari e poi offra al pubblico, dopo aver riportato la conversazione-spettacolo su parametri attenti alla verità storica, un sorso di “mulsum” , il vino dei Romani, addolcito col miele. Non certo quello “de li castelli”, celebrato negli stornelli, con l’abilità chitarristica, oltre che interpretativa, di Massimo Pagano, ma la saporita bevanda che accompagnava, dolcemente, l’antipasto in epoca antica. E’ l’avvio di una divertentissima serie di siparietti e piccole danze degli attori, che alternano i momenti discorsivi ad altri ricchi di ritmo e di energia, con l’ausilio delle canzoni della tradizione, soprattutto meridionale.


Ma un minimo d’ordine occorre pure, via. A questo servono gli assaggiatori e i degustatori professionali della mitica bevanda. Sono loro ad entrare in scena, dopo i maldestri tentativi degli attori di aprire e servire nei calici il contenuto di malcapitate bottiglie, e a descrivere le tre fasi, visiva, olfattiva, gustativa, attraverso cui passa lo studio e l’apprezzamento vero del vino. “Perché quella parola parla di pioggia, sole mare, territorio, anzi “terroir”” - chiosa Mariagrazia De Luca dell’AIS, Associazione Italiana Sommeliers, invitata, infine, sul palco, a dare una vera e propria lezione sull’argomento, e a spiegare, con l’ausilio di un operatore professionale, agli increduli attori e al “pubblico astante”, le attentissime fasi attraverso cui il vino deve passare dalla bottiglia al bicchiere, per essere gustato al meglio. Non solo “Viva Bacco e Viva Amore”, dunque, ma professionalità e serietà per esaltare il gusto.


Sarà… E però la conclusione non può che essere affidata ancora una volta, all’allegria e alla nostalgia che solo il vino suscita negli animi. Tutti insieme, infine, così, a cantare “Vino, vinello…”, celebrando, fra ironia e nostalgia, l’amore per un’innamorata ingrata, con i versi di Libero Bovio. Perché il vino è l’anima delle riunioni fra amici, il perno della socializzazione, la consolazione immediata ai propri guai. Chi non lo riconosce, non beve, “assume una dose di alcool”, piuttosto. Questo è.

 

                                                                                                            Maria Ricca