Castelbaronia

Nella nostra tradizione popolare, la quaresima è accompagnata, oltre che dal suono allucinante e legnoso delle traccole, dalla voce straziante delle lamentatrici popolari che cantano la passione di Cristo mentre svolgono il lavoro dei campi, sono nenie antiche che giungono a noi dal cuore del Medioevo. Il più antico brandello di canto della Passione lo troviamo intorno al 1150, si tratta di un testo meridionale, scoperto a Montecassino nel 1936 scritto su pergamena usata per rilegare un codice.

 

Si tratta di un canto della Passione in lingua latina composto di 317 versi di cui tre in lingua volgare. Cristo parla ai ladroni e non alla madre che piange ai suoi piedi, poi lei, con un forte grido lo chiama, qui manca un pezzo perché la pergamena risultò rovinata, poi seguono i tre versi, doppi quinari, in volgare: …te portai nillu meo ventre / quando te beio- moro presente / nillu teu regnu- àgime a mmente.”. La pergamena risulta scritta da una sola mano per questo è immaginabile che si trattasse di un eco popolare inserito in una cerimonia sacra, come del resto si può ascoltare ancora oggi in alcune processioni religiose, il ritornello dialettale si interpone alle stanze in lingua.

 

Il ricordo dei nove mesi di gestazione del canto cassinese, lamento ripetuto spesso nei pianti funebri popolari, ritorna in alcuni canti della Passione raccolti nel Sud: “…quiri nove misi ca non ce stisti / vergenella com’era la lassasti”. A questa prima testimonianza scritta, ritrovata a Montecassino, seguono molti altri canti sullo stesso argomento, esempio altissimo è il “De planctu Dominae” di Iacopone da Todi, dove, piuttosto che nelle trenodie ecclesiastiche, il canto ha riscontro nei lamenti popolari che le donne umbre eseguivano al tempo di Iacopone. La Madonna appare nella sua affranta condizione umana distrutta dalla perdita del figlio unico e diletto mentre il Cristo è avvolto nella sua immobile sapienza.

Nei nostri canti invece, scompare il baratro tra il divino e l’umano e la figura del Cristo stesso appare spaventata dai ferri del supplizio, infatti chiede alla madre di andare dai fabbri, e la madre va e implora: “…faciti li chiuovi curti e suttili c’hanna percià le carne soe gintili”. In un canto di Sant’Angelo all’Esca, la Madonna ascolta il supplizio del figlio davanti a una porta chiusa e si rivolge a Giuda: “Giuda Giuda no’ dalle forte ca’ so’ carne dellecate./ Cittu cittu tu Maria / lassammo a tuo figlio / e pigliammo a te. / Giuda Giuda tradetore / pe’ trentatrè denari / a lo mio figliuolo m’hai ‘ngannato / che bisuogno fussi avuto? / ‘N’casa mia fussi minuto / lo velo de lo mio petto / me lo ‘mpegnavo pe’ molti affetto / lo velo de lo mio core / me lo ‘mpegnavo pe’ lo mio figliuolo”.

E così, nella tradizione popolare emerge la figura di Giuda il traditore come quella dello zingaro e dell’Ebreo, figure additate come peccatrici senza troppi ripensamenti, nella semplicità del pensiero degli umili. A digiuno di teologia, con quella fede semplice che rimanda più agli affetti immediati che alle speculazioni filosofiche, il popolo sente il dolore umano di Maria e le ingiustizie che perseguitano i giusti, solitamente i poveri, la gente che non ha difese e che subisce sempre, ieri e oggi, perché vittima di un sistema che stritola gli umili, i miti di spirito. Il traditore non è visto come l’uomo che adempie al progetto escatologico dell’Altissimo ma come quello che ha fatto del male arbitrariamente per la misera cifra di 30 denari.

La sua figura è dannata per sempre senza speranza di riscatto, senza pietà di alcuno, chi mai potrà comprendere il gesto di colui che ha permesso la salvezza dell’umanità attraverso un tradimento quindi l’immolazione dell’Agnello sulla croce? Argomento spinoso che richiede una grande carica di umanità ma anche di fede per poter esser affrontato, lo ha fatto Gaetana Aufiero, figura rilevante nel Pantheon culturale irpino, con la sua Lauda di Giuda “Io Giuda, Io Pietro”, atto sacro in scena oggi (sabato 11 aprile) a Castel Baronia con il patrocinio del Comune, col sindaco Felice Martone, il presidente della Comunità Montana Valle dell’Ufita Carmine Famiglietti, l’Università popolare Irpina con Michele Ciasullo e Antonio Morgante. L’evento è stato proposto dal Centro di Ricerca Tradizioni popolari “La Grande Madre” con il coordinamento di chi scrive e l’intervento del prof. Emilio De Roma studioso in Scienze Religiose.

La compagnia teatrale, diretta da Antonio De Padova, è composta da Nello De Padova, Marianna Rossi, Manola Mallardo, Saveria Settembrino, Adriana Giordano, Alessia Giordano, Luca Aquino. Antonio De Padova; regia: Costanza Fiore; musiche composte da Carmina Rinaldi. Violino Rita Volpe. Organo: Carmina Rinaldi. L’Aufiero con la sua straordinaria sensibilità riesce a penetrare il cuore della Vergine e qui trova il perdono, quello di una madre che comprende un’altra madre con la sua stessa sorte, madre scura, nera di lutto e dolore. Anche Pietro che rinnegò tre volte, è chiamato in causa, lui divenne Pietra di fondamenta perché si pentì e credette nel perdono del Padre, Giuda invece finì dannato, come i tanti suicidi che in questo momento in particolare si susseguono, perché non ebbe fiducia. Una lauda, quella dell’Aufiero, che si presta alla speculazione teologica, ma soprattutto un messaggio positivo, di speranza, che l’uomo deve cogliere e volgere alla luce il proprio cuore e la propria mente.

Franca Molinaro