di Luciano Trapanese

Hanno deciso di consegnare allegramente il Paese alla destra sovranista o a Grillo. La scissione del Pd (dovrebbe essere questione di ore), non è solo la morte di un partito – o il suo evidente ridimensionamento -, ma la presa d'atto che gli interessi personali contano più delle sorti di una nazione.

Renzi non ha ceduto: congresso subito, elezioni prima possibile. Motivo: non vuole farsi rosolare a fuoco lento, non vuole concedere potere e poltrone a chi, nel suo stesso partito, ha brindato la notte della devastante sconfitta referendaria.

Gli scissionisti non hanno ceduto: serviva tempo per costruire una efficace alternativa all'ex premier e dovevano impedire a tutti i costi una immediata e scontata debacle nelle primarie (con conseguente riduzione del potere, già ai minimi).

La posizione mediana, quella sostenuta dal ministro Andrea Orlando (ok, congresso il prima possibile, ma prima una discussione programmatica per dare un senso all'agire politico del Pd), è stata ignorata. Da una parte e dall'altra.

Era troppo di buon senso, evidentemente.

Sullo sfondo la legge elettorale. Il proporzionale offre spazio a tutti, anche ai partitini del tre, quattro per cento.

L'accorato appello di Veltroni all'unità, che non ha risparmiato bordate ai dalemiani e allo stesso Renzi, è caduto nel vuoto (e allora perché quell'ovazione in sala?).

In Campania la scissione dovrebbe riguardare una buona parte dei dem che hanno sostenuto il no al referendum. Forse parte degli ex bassoliniani. Non il governatore De Luca, che non si è appassionato né al voto referendario (ha invitato con forza a votare sì, ma non ha mai ritenuto rilevanti le riforme costituzionali), né alla guerra interna al partito (lui si ritiene altro e guarda oltre).

La scissione resta un mistero per tanti elettori e iscritti al Pd.

Ci fossero state due visioni contrapposte, tipo in Francia, tra un Macron europeista e liberista e un Hamon decisamente socialista e utopista, beh, almeno si poteva anche comprendere. Ma non s'è discusso di questo. Nè in direzione e neppure nell'assemblea.

La questione era: congresso subito, congresso dopo. Ma la spaccatura, è chiaro, è cresciuta lenta e inesorabile in questi mesi.

Il personalismo di Renzi ha ridotto a zero la voce della minoranza. L'ala storica proveniente dai Ds si è arroccata in un “contro” che ha poi espresso con forza nel no alle riforme.

Il risultato è questo.

Drammatico. Non solo per la fine di un partito, ma perché la fine capita in un momento storico a dir poco complesso. E proprio mentre una proposta sinceramente di sinistra sembra l'unica risposta possibile alla sempre più egemone ultradestra.

Un pericolo evocato in ogni discorso. Così com'è stato ricordato negli interventi ascoltati durante l'assemblea, dell'inadeguatezza del partito nel comprendere le legittime paure di un elettorato che ha trovato altrove le risposte necessarie (Cinque Stelle, Salvini...).

Ora a sinistra di quel che resta del Pd c'è un frastagliato arcipelago di sigle e siglette, orgogliosamente divise e orgogliosamente lanciate verso l'irrilevanza politica. Dagli scissionisti, alla nuova formazione di Pisapia (che però guarda a Renzi), da Si, a Rifondazione, i Podemos in versione italiana di De Magistris (con i sindaci di lotta e di governo), fino alle ancor più minuscole e frammentate sigle comuniste. Tutte divise da chissà cosa. Ostili tra loro in modo radicale. Mah.

La frantumazione dei democratici ha ridato voce anche a Berlusconi (che lancia Zaia, nel tentativo di ricomporre l'alleanza con la Lega), rinforzato l'asse Salvini/ Fratelli d'Italia, rinvigorito il Movimento 5 Stelle (nonostante le vicende romane), attualmente primo partito d'Italia.

Con questo quadro si corre verso le prossime elezioni. E con il proporzionale il risultato sarà un guazzabuglio inestricabile per un Paese ingovernabile.

Nel frattempo l'esecutivo Gentiloni, già fragile, diventa più che vacillante e dalla sorte incerta.

Avremmo bisogno d'altro.

E altro arriverà, ma non saranno buone notizie.