di Luciano Trapanese

Le grate, le ruote d'ottone, quel pesante portone in legno, il silenzio quasi surreale. Un pezzo di mondo dedicato solo a Dio. Chiuso tra pareti bianche e robuste. Chiuso all'altro mondo. Il nostro.

Monastero di Santa Chiara, a Pagani. Un luogo simbolo della mia infanzia. Il luogo dei misteri che non fanno paura. Il luogo dove per più di cinquanta anni ha vissuto mia zia Maria, suora di clausura.

Ci andavo una volta al mese, insieme ai miei genitori. Con la filovia. La numero 4 dell'Atacs, Salerno – Pompei. Un viaggio. Più di un'ora per poche decine di chilometri.

La fermata era lì, a pochi passi dal monastero. Bisognava prima suonare un citofono. Aspettare quasi un minuto. Poi si entrava nel cortile. Era tutto bianco, quasi accecante nel sole di certi giorni d'estate. Quindi un'altra porta. Ma il mistero, per me, era oltre ancora. Quell'altro portone, quello che portava al luogo inaccessibile, l'interno del convento.

Noi venivano irrimediabilmente dirottati verso destra. Un lungo corridoio, con delle piccole salette. Una dopo l'altra. Quello era il nostro posto. Il posto riservato ai visitatori.

In ogni saletta tre sedie di fronte a una doppia grata in ferro. C'era una tenda che non lasciava vedere all'interno. Accanto alla grata, nella parete, una ruota girevole in ottone. L'unico posto dove era possibile scambiarsi degli oggetti.

E a lungo è stato anche il centro della mia attenzione. La ruota era abbastanza grande, potevo starci dentro. Se qualcuno la girava avrei potuto entrare nel convento e conoscere finalmente i segreti di quel posto.

Ma non l'ho mai fatto. Ci provavo ogni volta. Ma bastava uno sguardo dei miei genitori per stoppare le mie intenzioni. Toccava sedermi e stare buono. Ma lo sguardo era sempre fisso sulla ruota. La ruota e la grata.

La pesante tenda bordeaux si apriva dopo qualche minuto. La madre superiora. Ci accoglieva sempre lei. Parlavamo a bassa voce, quasi per non disturbare quel silenzio. Ci raccontava della vita nel convento. Del giardino, dell'orto, delle nuove suore che erano arrivate. Ogni tanto alle sue spalle si sentivano dei passi e il frusciare lieve di una tonaca sul pavimento. La madre superiora era la più “terrena”. L'unica che poteva dialogare anche con l'esterno. Si occupava dei fornitori, dei lavori nella chiesa. Per le altre sorelle esisteva solo il convento. Precluso ogni rapporto con il mondo di fuori. Se capitava di dover scambiare qualche parola attraverso le grate con persone che non erano parenti, beh, in quel caso un velo nero copriva il loro viso. Una scena un po' inquietante. Soprattutto per me, che ero rimasto così impressionato da Belfagor, lo sceneggiato televisivo.

Mia zia arrivava dopo una decina di minuti. Ci salutavamo infilando le mani tra le grate. Un leggero contatto. L'unico possibile.

Zia Maria aveva un sorriso dolce. Gli occhi verdi, sempre sereni. Si svegliava alle cinque, per le prime preghiere. Poi lavoro, lavoro. E ancora preghiere. Sembrerà strano, ma non avevano tempo libero. Lei si informava dei parenti, di come stavamo. Ma non aveva curiosità per il mondo di fuori. Si interessava a noi. E basta.

Da piccolo le ho chiesto se aveva saputo che l'uomo era andato sulla Luna. Lo sapeva. Avevano il televisore. Ma lo guardavano poco. «Solo il telegiornale, a volte».

Dopo un po' arrivava un'altra suora. Con un vassoio, c'era il caffè e quei pasticcini bianchi che ho mangiato solo in quel monastero. Per anni ho ricordato quel sapore, quel profumo.

Il vassoio era inserito nella ruota d'ottone. Un mezzo giro e compariva nella saletta.

Molto tempo dopo, ero già ventenne, sono riuscito a entrare nel convento. Non è stato difficile: eravamo invitati. Una cerimonia, i cinquant'anni di clausura di zia Maria. Un piccolo evento. La messa, e poi in una sala un frugale rinfresco. Era arrivata anche una lettera del Papa (Giovanni Paolo II), le suore la lessero ad alta voce, con emozione. Dalla sala potevo finalmente vedere l'orto e il giardino. C'erano anche tanti alberi, soprattutto aranci. Un piccolo pozzo.

Un angolo dove il tempo s'era fermato. E dove c'era spazio solo per la contemplazione di Dio.

E' stato quel giorno che ho capito il senso di quel sacrificio, di quel donarsi completamente al Signore. Il significato quel convento chiuso al mondo, ma affacciato in ogni istante sul mistero della vita.

Ed era proprio quello il mistero che non riuscivo a capire da bambino. Il segreto di quel posto.

Qualche anno dopo zia Maria è stata costretta a uscire per qualche giorno dal monastero. Doveva operarsi a Cava dei Tirreni per un male che poi l'ha portata via.

Andai a trovarla, le avevano assegnato una piccola stanza, da sola. Sembrava frastornata. Troppo rumore, troppa gente. Un frenetico via vai che le doveva apparire senza senso. Ma lo sguardo emanava la stessa serenità. Per la prima volta mi ha accarezzato il viso. Ho fatto altrettanto.

Mi ha detto anche delle parole. Poche e preziose.

Le ultime che ho sentito da lei.

E' morta poche settimane dopo. Le suore ci hanno detto: era felice, ha raggiunto il suo Sposo.