di Erika Mazza*

Il racconto di Marina Rinaldi, una Donna. Una delle più forti e determinate che abbia mai conosciuto. Mi ha colpita la sua professionalità calcistica, la sua umanità. Persone come lei possono cambiare il mondo. Persone che hanno realmente qualcosa da dire. Non fermatevi a ciò che vedete, non date un giudizio affrettato, fatevi sorprendere dalle persone. Che importa se qualcuno è etero, omosessuale, bisessuale o transessuale, è un essere umano. Non è già abbastanza?

Chiunque merita una possibilità. «Credo negli esseri umani che hanno il coraggio di essere umani.»

Le sensazioni che si provano in un corpo sbagliato. «Sicuramente non si sceglie, perché se avessi potuto farlo, sarei nata bambina, e non bambino. Trovarsi in un corpo a cui non appartenevo era una bruttissima sensazione, c’era un’incongruenza con quello che sentivo, quello che provavo, con la sessualità interiore che mi rappresentava. C’è chi ha il coraggio di affrontare questa situazione, alcuni, però, non lo fanno».

La famiglia e la fede. «Per mia fortuna ho avuto la mia famiglia che mi ha sempre sostenuta. Inoltre ho una grande fede, so di non essere mai sola, Dio mi è stato molto vicino nel percorso, in ogni momento».

La transizione. «E’ un percorso estremamente doloroso, e non solo fisicamente. Questa sofferenza mi è servita però, a valutare le persone prima interiormente. Prima di tutto dobbiamo ricordarci di essere esseri umani perché come dice Papa Francesco “In questo secolo c’è mancanza di umanità”».

I giudizi. «Io penso che la gente non formuli giudizi. E’ una considerazione spontanea di chi osserva qualcosa. E’ una nostra suggestione, lo creiamo noi, è un fantasma che ci perseguita, - Marina mi racconta -. Noi dobbiamo riuscire a non farci influenzare dalla valutazione di chi non ci conosce, perché nessuno può mettere in discussione i nostri sentimenti, soprattutto i nostri sogni».

Le etichette. «Ognuno di noi ha un destino. Siamo esseri umani. Quando ero una transessuale mi sono sempre interrogata sul perché un essere umano debba essere catalogato. Si sa, le differenze non fanno mai bene».

Il calcio. «Ero un’allenatrice maschile. Poi il calcio femminile è stata una questione di destino. L’unica differenza tra uomini e donne è, inevitabilmente, la forza fisica. Cerco di far capire alle mie ragazze che bisogna sfruttare i propri punti di forza, bisogna trasmettere un po’ di se stessi, nel calcio così come nella vita». Le discriminazioni. «Quest’anno un dirigente di una squadra avversaria disse all’arbitro “non so come definire l’allenatrice/l’allenatore della squadra avversaria”- mi racconta-. Quando vado in panchina, cerco di fare il mio ruolo di allenatrice e mi sento talmente donna, talmente determinata nella mia semplicità che queste affermazioni non mi toccano. Ognuno di noi sceglie chi essere. La discriminazione la creiamo noi stessi».

I progetti futuri. «Il mio prossimo sogno è quello di conseguire il patentino “Uefa A” come allenatrice, a Coverciano. Voglio continuare ad allenare in maniera qualitativa e professionale, magari in una categoria superiore, magari con la mia Salernitana, chissà. E poi voglio continuare a superare me stessa, tutti i giorni, esaminandomi, perché, sai, è la vittoria più grande».

«Dopo essermi operata, sembra paradossale, ma la difficoltà maggiore è stata convincermi che ce l’avevo fatta, che dopo tanti sforzi, la mia nuova vita sembrava ancora più bella di quella che avevo immaginato. Finalmente, un nuovo inizio».

*Studentessa del Vivaio di Ottopagine, il corso di giornalismo multimediale organizzato nell'ambito dell'iniziativa scuola/lavoro