di Luciano Trapanese

C'è chi canta una Napoli che non è quella narrata da De Magistris. Si avvicina a quella di Saviano. Ma è più vera di Gomorra, trasuda sangue e verità. Ingenuità e coraggio. Fango e paura.

Niente pizza e mandolini. Ma droga e pistole. Niente paesaggio del golfo, niente Vesuvio. Niente scugnizzi e vicoli. Ma Scampìa e Secondigliano. Periferie delle periferie. E niente Pasolini, niente Eduardo. La poesia corre su beat elettronici e racconta vite parallele, recintate nel vuoto. Quelle stesse vite rappresentate da fiction coreografiche, fasulle come quinte su un palcoscenico.

E' la Napoli dei rapper. Scavata a mani nude. In una breccia aperta dai Co' Sang, il primo gruppo a scarnificare la realtà dei quartieri rimando e ritmando parole dure e sanguinanti nella poetica violenta e urbana del rap. Una breccia che in dieci anni è diventata un varco tra le nenie dolciastre dei neomelodici, per diventare colonna sonora del sottoproletariato urbano.

Slang napoletano, niente a che fare con Filomena Marturano. Groove da metropoli Usa. La scena rap napoletana è la più vitale d'Italia. Riferimento anche per gli artisti d'Oltralte, quelli che disegnano con suoni e parole la vita nelle banlieu di Marsiglia o Parigi.

Ma non è la stessa cosa, come racconta Luchè, con 'Ntò, Denè e Dayana, anima dei Co' Sang, in una intervista rilasciata a Noisey: «Mi rivolgo ai rapper, francesi e non solo, che spesso credono di vivere in un posto feroce e complicato. Niente in confronto a qui. La Colombia d’Europa siamo noi. Anzi, io non so com’è la Colombia... Al massimo può essere uguale a queste zone. Peggio è impossibile. I rapper afroamericani si chiamano spesso con nomi di italiani, hanno il mito della criminalità italiana, comprendendo che è il business maggiore ma anche la maggiore ferocia. Quando noi da Napoli andiamo a fare i concerti fuori, sentiamo che tutti vorrebbero essere noi, che veniamo da una realtà veramente criminale, e non solo incasinata, come se questo fosse un valore aggiunto alle nostre parole. È incredibile ma vorrebbero anche loro essere figli di una realtà così. Ma noi ce ne freghiamo. Venire da dove veniamo ci porta solo a pretendere più verità dalla nostra arte».

La scena attuale ha tanti nomi. Oltre a Luchè, c'è Vale Lambo, Fuossera, Lele Blade, Dome Flane, Enzo Dong, Kimicon Twinz, Moderup, G-Bros, Peppe Soks, CoCo, Oyoshe, Lucariello e altri ancora. Tutti affrontano gli stessi temi. La periferia, la droga, le gang, la rabbia e la solitudine metropolitana. Tutti con lo stesso linguaggio. Ma – è chiaro – non tutti con la stessa capacità di penetrare la realtà e sbatterla in faccia a chi di Napoli vuole conoscere solo piazza Plebiscito e dintorni.

Il rischio è il compiacimento. Il racconto fine a se stesso. E non come riscatto dal ghetto. Come forma d'arte che spezza le catene del “sistema”.

Ma quelle canzoni sono lì, a testimoniare l'altra città. Che non sarà quella di Gomorra (anche se nei video dei pezzi l'immaginario è quello della serie tv), ma certo non è quella di De Magistris. Non è la Napoli dell'arte, della cultura, degli alberi di Natale più grandi del mondo, dei turisti a frotte. Quella si muove ancora tra pizza e mandolini, magari intinta in una modernità plasticosa, fasulla, che preferisce non fare i conti con l'altra Napoli. Quella che sanguina, disperata e disperante. In bilico tra il riscatto e l'inferno, tra se stessa e le sceneggiature di una serie tv. Una Napoli senza la guapperia di un Merola. Con un dialetto duro e feroce. Proprio come questi tempi. Una Napoli più vera. Che non è tutta Napoli, ma una parte vitale della metropoli. E pretende di non essere nascosta. Avrà la faccia sporca, ma ha anche un cuore che pulsa al ritmo sghembo e psichedelico dei suoi rapper.