di Luciano Trapanese

Notte di Vigilia, con gli amici. E con i loro figli, che non sono più bambini, anzi. C'è chi ha terminato l'università e chi si appresta a farlo. Sono tre e il loro futuro non è qui. Nè in Campania, né in Italia. Tre su tre. Proprio come molti loro amici. Con laurea o senza.

«Ho vinto una borsa di studio negli Stati Uniti. C'è un master e poi il lavoro in una azienda di elettronica». Ok, chiaro. Normale accettare.

Ma c'è anche l'altro: «Non so ancora, ma voglio provare a Berlino. Lì gli architetti non spazzano i cessi come in Italia». Ok, meno chiaro. Ma come dargli torto.

E il terzo: «Parto con la mia ragazza. Destinazione Londra. Lei è fotografa, già un po' inserita. Io lavoro come grafico: qui c'è poco spazio. Proviamo lì. E partiamo per restare».

Il mantra finale è proprio quello, «partiamo per restare». Fiducia zero in questo Paese. Nella sua classe dirigente. Nel futuro che ci aspetta.

Ma non è solo questo.

E' la generazione della globalizzazione. Abbiamo tutti parlato per anni di un mondo senza barriere, senza confini. Con possibilità infinite, per tutti. E ora è normale che i nostri ragazzi guardino altrove. Soprattutto se l'altrove – almeno nelle speranze – offre chance che il “qui” non prevede. Nè oggi e forse neppure domani.

«Resterei – dice Marco, con le valigie pronte per gli Usa di Trump -. Non ho la fregola di vivere all'estero, di partire, di tagliare i ponti con le mie radici, di allontanarmi dalla famiglia e dagli amici. Ma qui per me non c'è nulla. Qui intendo in Italia. Se voglio dare un senso alla mia vita, un significato agli anni passati a studiare, non ho altre possibilità. In Italia non hanno pensato a noi. Il mondo è cambiato, si doveva avere il coraggio di ribaltare tante logiche, a cominciare dal mondo del lavoro. Anche per garantire ai giovani una porta d'accesso. Hanno scelto di difendere chi un lavoro già ce l'ha. Una scelta più semplice. Quasi scontata. Ci hanno lasciati di fronte a un muro. Prendendo pure a schiaffi la nostra generazione. Come se fossimo dei buoni a nulla. Normale che si vada dove per noi non ci sono muri e si guarda ai giovani senza pregiudizi, ma con la convinzione che possano portare nuova energia, nuove idee e l'apertura necessaria per affrontare le sfide di questi anni».

Beh, nessuno ha potuto obiettare. Con amarezza.

Ma è stato peggio sentire Luca, che va a Berlino. «Ci hanno frantumato le scatole con il referendum, l'immigrazione clandestina, il terrorismo, la legge elettorale. Tutte cose che contano, per carità. Ma nessuno che parla mai di generazioni di giovani, e molti non lo sono neanche più, che sono state tradite, abbandonate, lasciate sole. Chi oggi ha tra i trenta e i quaranta ci ha provato. Ci prova ancora. Quando erano ragazzi il disastro era solo annunciato. Hanno sperato, perché un briciolo di speranza ancora c'era. Ora non c'è neppure quella. E forse è meglio così. Non ci sono alternative. O si parte o niente. Non abbiamo l'angoscia della scelta. Sappiamo bene quello che lasciamo. E possiamo andarcene senza il timore di rimpianti».

Non male come Vigilia di Natale. Ho tentato di schiarire quel quadro nero. Ma mi sono fermato. L'ottimismo deve avere una base, altrimenti è illusione. E questo 2016 di basi per alimentare pensieri positivi non ce ne ha regalate. Si guarda avanti, ma non si intravedono certezze. Ci stiamo abituando a vivere perennemente in bilico. E chi vive in bilico è già fortunato. Si può permettere di oscillare su una corda sospesa nel vuoto. C'è chi su quella corda non è riuscito a salire o è già precipitato.

Possiamo solo augurarci che la tempesta passi. Continuare a ritenere che siamo usciti – come Paese – da situazioni anche peggiori. Ma se non cambiano gli attori, se il sistema resta quello che è, non ci resta che alzare bandiera bianca. Tra i tanti guai quello che spaventa di più è la mediocrità al potere. E su quello, purtroppo, c'è poco da fare. Servirebbe un miracolo. Ma i miracoli – anche la notte di Natale – non fanno parte di questo mondo. Purtroppo.