«Ti bacio sempre, la tua cara moglie Massimina».
Così termina una delle lettere che la nonna ha scritto al nonno, quando lui era prigioniero.
Amore. Questo si percepisce a primo impatto. È una frase come tante, magari anche più banale delle tante, ma ciò non toglie che sia piena d’amore. L’amore che lega un marito e una moglie divisi da qualcosa di più grande, la guerra.
«Ci sono cose da fare ogni giorno …. ci sono cose da fare di notte … ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra». Gianni Rodari parla così della guerra. Qualcosa alla quale non ricorrere per nessuna ragione. Qualcosa di pericoloso, qualcosa che uccide “che pone fine all’umanità”, aggiunge John Fitzgerald Kennedy.
È per questa ragione che mi sento di dare un valore in più a questa frase. La frase di saluto che una moglie scrive al marito, prigioniero di guerra.
È la storia dei miei nonni. Riusciti a sposarsi nel 1943, durante uno dei congedi del nonno. Dico uno, perché non è stato l’unico. Diverse volte, durante gli anni della guerra, fu spedito a casa, per poi essere richiamato in aiuto alla patria.
Così funzionava. Lo Stato chiamava gli uomini, strappandoli alle famiglie, appena ne aveva bisogno, per poi rispedirli a casa quando non servivano più. Utilizzati come fossero oggetti, anche se in realtà non era di oggetti che si trattava.
Il nonno si trovava in servizio in Jugoslavia, quando l'otto settembre del 1943 – dopo l'armistizio - insieme con il suo reggimento, fu catturato e portato in Germania nei campi di prigionia. Qui dal 13 settenbre di quell'anno e fino all'otto maggio1945 fu prigioniero dei tedeschi. Come gli ebrei, tenuti nei campi di concentramento. E come per gli ebrei, il nome veniva azzerato. A distinguerli gli uni dagli altri era un numero: quello di matricola. Lo stesso numero grazie al quale riusciva a comunicare con la nonna.
Furono anni assai duri per lei. Si era sposata da poco ed era rimasta in paese. Si ritrovava da sola nel dover crescere una bambina appena nata.
Quando il nonno partì, lei era incinta. A quei tempi si scopriva il sesso del nascituro alla nascita, è così che, in una delle lettere inviate nel campi, dove il nonno era tenuto, la nonna gli annuncia il sesso della creatura: «Mio caro ho partorito. E ancora: «Ti faccio sapere che il mio partorire è stato a femmina, io non so se ci presti piacere se è femmina, le ho messo nome Laura, come il tuo cuore desiderava di più».
La nonna non sa se quella che dà al nonno sia una bella notizia. Non sa se lui sia contento di avere una figlia femmina. Così gli annuncia che la piccola si chiama come il cuore di un figlio riconoscente alla propria madre. Laura, il nome di sua mamma.
Con lo scambio di queste cartoline, spedite al fronte e nei campi di prigionia e lavoro, mittente e destinatario trovano un filo di unione: la speranza. La speranza di rincontrarsi, il sostegno reciproco e la preghiera. Si rincontreranno quando tutto sarà finito, fino ad allora ci sono solo quelle lettere, quelle incerte parole scritte su carta a dare loro conforto.
Mentre leggo la lettera immagino la nonna scriverla, sedersi in cucina, alla luce di una candela, dopo una giornata passata fra il lavoro in campagna e la piccola da crescere. L’attesa della posta era il momento più vivo della giornata e adesso rispondere poteva azzerare le distanze.
«Assai gioia il giorno 16 corrente a vedere il tuo scritto di nuovo, dopo sei mesi è così. Spero che arrivano presto le tue notizie e ricevi presto le mie notizie».
Queste frasi, seppur sgrammaticate e con lessico e forma poco corretto, esprimono in modo silenzioso l’amore che li univa. Ma anche la paura, quella di non vedersi più. Perché anche se il nonno adesso non stava combattendo, era nelle mani del nemico e a decidere per il suo destino erano i tedeschi.
Così la nonna desiderava conoscere le condizioni del nonno e, per rassicurarlo e continuare a dar lui speranza di ritorno, gli parlava di amici e parenti ormai tornati dal fronte, ma anche delle sue condizioni di salute: «Dei cognati si trovano nelle loro case, e anche Orazio si trova alla sua casa». «Caro marito, vengo a comunicarti il mio buono stato di salute, assieme la bambina». E ancora: «Ti faccio sapere che noi ci troviamo tutti bene di famiglia».
Sono lettere sincere, scritte il secolo scorso e inviate nei campi di prigionia tedeschi. Rimandano a un tempo buio, ma danno gioia al cuore. Questo perché, quando la guerra finì, il nonno tornò. Qui a casa, dove sua moglie e la sua bambina ricolme di gioia lo stavano aspettando.
Giusi Puzo
(studentessa del Vivaio di Ottopagine, il corso di giornalismo multimediale organizzato nell'ambito dell'iniziativa scuola/lavoro)