di Luciano Trapanese

Ma basta. Non se ne può più. Ore si mette pure il pentastellato Carlo Sibilia, che definisce – in pratica - figlio di puttana, un utente su Twitter. Con una frase di inestimabile valore letterario: «Sempre peggio non sapere chi sia il proprio padre...Come nel tuo caso». A cui segue una risposta secca dell'interessato: «Quindi stai definendo mia madre, morta undici anni fa, una puttana...».

Sibilia si unisce alla lunga lista di quelli che proprio non riescono a contenere una violenza verbale inaccettabile. Inaccettabile soprattutto da chi ricopre ruoli istituzionali.

Dopo De Luca (che ha citato Sordi per giustificare i suoi reiterati auguri di morte per ogni tipo di rivale), De Magistris (esperto del gesto dell'ombrello: tiè), il fuoriclasse D'Anna (maestro in risse e offese parlamentari), i consueti Grillo, Salvini e gli accoliti nordisti, professionisti di ignobili parole in libertà, più tutta un'altra serie di macchiette politiche (molto molto trasversali, nessuno escluso), che ammorbano l'aria, la stampa e il web, con dichiarazioni che vanno sempre più spesso ben oltre la diffamazione aggravata e la calunnia. Pura sconcezza gratuita. E soprattutto incitano – inconsapevolmente (?) - alla violenza.

Come in questo indecente dibattito tra il Sì e il No al referendum. Chi la pensa diversamente è un nemico. Da abbattere. E in tutti i modi. Non è neppure uno scontro ideologico, ma all'arma bianca. Come se davvero, vincesse il Sì o il No, ci troveremmo di fronte all'apocalisse.

Non accadrà niente di che. In entrambi i casi (e per questa affermazione i pasdaran delle due fazioni ci segnaleranno ai rispettivi plotoni d'esecuzione).

Da Bossi a seguire (i fucili padani pronti a combattere), è stato un vorticoso sdoganamento della parolaccia per tutti. Della inusitata violenza verbale. E più è violenta – l'offesa, l'insulto, la proposta oscena – tanto più conquista spazio. Sugli organi di informazione (mea culpa), e in rete.

Siamo passati dal politichese al vaffanculo. Dalle convergenze parallele al ti possano uccidere. Il primo era un linguaggio criptico, per adepti (comunque inascoltabile). In fondo misterioso. Il secondo è tipico dei peggiori bar di Caracas. La parolaccia è pop. In pieno stile gentista: basta alchimie, il popolo deve capire.

Per questi signori il popolo è popolo bue. Che rutta, bestemmia, insulta, fa gesti osceni e dà libero sfogo a qualsiasi porcata. Proprio come gli autoproclamati politici del popolo, che travestono ogni possibile porcata da proposta politica.

Peppino Caldarola, in un interessante commento su Lettera 43, evoca addirittura un pericolo letale: il linguaggio politico fuori controllo rischia di far precipitare il Paese in una nuova stagione da anni di piombo.

L'analisi è giusta e condivisibile. Sulla conclusione la pensiamo diversamente. Immaginiamo altre derive, non quella delle pistole fumanti.

Ma resta il punto: quando capiranno i nostri rappresentanti istituzionali (sarebbe la classe dirigente...), che è meglio sciacquarsi la bocca e contare fino a dieci prima di parlare o scrivere, evitando di mitragliare il mondo con ogni possibile cavolata. Perché la gente (anzi, lagggente come dicono loro), non sa più che farsene di turpiloqui. Non fanno neppure ridere o inorridire. Sono lì, a testimoniare il niente che dovrebbe decidere il futuro di una nazione.

Li abbiamo eletti per risolvere problemi. Non per urlare caz... (ci censuriamo), in ogni dove, con l'arroganza esibita dell'ignorante presuntuoso. Soprattutto lì, dove si decidono le sorti della nostra democrazia.

Poi ci preoccupiamo del referendum...