di Luciano Trapanese
Lo sapevo da due settimane che l'avrei rivista. E cercavo di non pensarci. Di non immaginare la scena. Ho finto che non fosse vero. Ma è difficile mentire a se stessi.
E così, anche ora. Mentre in macchina sto per arrivare lì, sul luogo dell'incontro, tento di riempire la mente con altri pensieri. Ma è tutto inutile. Mi dà fastidio anche ascoltare la radio. La voce allegra per contratto dei dj, e anche quella solenne per contratto di chi legge le news dei notiziari.
Il cielo è grigio. Da qualche nube spunta un raggio di sole. Il buio della notte è stato illuminato dai fulmini. Una notte quasi insonne. La strada è bagnata. Ho gli occhi gonfi, gli abiti del giorno prima.
Salgo le scale con affanno. C'è già mia sorella, con suo marito. E mia cognata, anche lei rivedrà mio fratello, che non c'è più da quasi dieci anni.
Sono lì, in silenzio. Mi dicono di non avvicinarmi. Quasi per proteggermi, come se fossi ancora bambino. Hanno già sfasciato la lapide. Su un pezzo di marmo c'è la foto di mamma. Sorride, seduta sul letto del mio monolocale romano. Era venuta a trovarmi con papà. Un sorriso lieve, appena accennato. Ma caldo come una carezza. Nel fotomontaggio alle sue spalle c'è il mare, quello tra Agropoli e Paestum. Il luogo della sua infanzia e del suo dolore. Il posto che ha sempre amato e dal quale è andata via. Per sfuggire al ricordo di un padre massacrato dai fascisti. Una scelta radicale. Coraggiosa. Come coraggiosa è stata tutta la sua esistenza. Fino alla fine. Fino al suo ultimo respiro.
Aggiusto la cravatta per trattenere la commozione. Ma è tutto difficile. Peggio di quello che avevo immaginato. Sento il crac della bara che si sfascia. Pezzi di legno poggiati in superficie. Mi avvicino sul bordo della fossa. L'operaio si muove con precisione. Deciso e delicato. Gliene sono grato. Tira fuori alcuni oggetti. Li avevamo messi dentro, accanto al corpo.
C'è una copia di “Cent'anni di solitudine”. Il suo libro preferito. Lo aveva letto decine di volte. Ogni volta che non aveva romanzi nuovi da leggere. E poi gli occhiali, che usava solo da vicino. E i ferri per la maglia, che aveva usato fino alla fine. Con una abilità fuori dal comune, nonostante l'artrosi.
Ho ripensato alla settimana enigmistica. Quando soddisfatta mi diceva che aveva completato anche il Bartezzaghi, il cruciverba più difficile della rivista.
Poi sono uscite le ossa. L'operaio le ha inserite in una cassa di metallo. Un femore, poi l'altro. Intorno c'erano ancora le calze. Non ho provato nulla. Sembravano oggetti che non avevano niente a che fare con un essere umano. Tantomeno con mia madre.
Poi il teschio. E tutto è diventato più difficile. I capelli candidi sono tutti lì. I suoi capelli ricci. Quelli che ho accarezzato da bambino. E poi da adulto. E che avrei dovuto accarezzare di più, quando il lavoro mi ha tenuto lontano dalla sua sofferenza. Una sofferenza sempre nascosta. Quasi con pudore. Sostituita da quel sorriso, appena accennato.
Quel sorriso non c'è più. E non immaginavo certo di ritrovarlo ora, in questo posto. Quel sorriso c'è sempre. Nel ricordo che ho di lei.
L'operaio ha chiuso la cassa di metallo. Mamma è lì dentro. Una scatola cinquanta centimetri per cinquanta.
Guardo la foto sul pezzo di marmo. Poi mi allontano. Per lasciar andare qualche lacrima.
Ho il suo stesso pudore. E penso, proprio mentre mi asciugo gli occhi, che lei, lei non ha mai pianto. Non ha mai pianto davanti a me.