Torna il Fiano Music Festival, rassegna dedicata a un’eccellenza conclamata del nostro territorio: il Fiano, uno dei tre D.O.C.G, che con il Taurasi e il Greco rappresentano i massimi alfieri della celeberrima tradizione vinicola della nostra provincia. L’evento tanto atteso è ormai una certezza del programma di manifestazioni estive irpine, quindi complimenti al comune di Aiello per essere riusciti confermalo. Siamo certi che le aspettative, non saranno deluse. Senza voler fare i guastafeste, però, il fatto che un simile festival non si reali nella città capoluogo, che nessuna rassegna degna di nota riguardante il mondo vinicolo abbia per scenario Avellino, salvo qualche eccezione slegata mordi e fuggi, riporta l’attenzione su un annoso problema: il capoluogo non è città del vino e, più in generale, non rappresenta in alcun modo le eccellenze della provincia irpina.
Cerchiamo di capire perché.
Conoscenza ridotta delle ricchezze del territorio: Avellino è sede del corso di laurea in Viticoltura ed Enologia della Facoltà di Agraria della Federico II, un corso d’eccellenza assoluta per tutto il meridione, eppure nessuno lo sa. Una realtà che al proprio interno racchiude figure professionali di spessore internazionale, su tutti Luigi Moio, recentemente eletto presidente della commissione enologia dell’Organizzazione internazionale della vigna e del vino (Oiv) riferimento tecnico-scientifico della filiera vitivinicola internazionale, che con i suoi 46 stati membri rappresenta più dell’85% della produzione mondiale di vino e l’80% del consumo globale. L’università, sola istituzione che connota, o quantomeno dovrebbe connotare la vocazione di questa città, veste i panni del “nemo propheta in patria” e non è per nulla avvertita come patrimonio comune degli avellinesi.
Nessun senso di appartenenza: Camminando per le strade del Centro, lungo Corso Vittorio Emanuele, fra i mercati cittadini, è impossibile o quasi trovare un richiamo, un riferimento seppur minimo, alle eccellenze che vorremmo rappresentare. Senza voler tirare in ballo i già bistrattati bancarellai, che a fra agosto e dicembre offrono il fior fiore della pasticceria sicula o del ciarpame di seconda mano, cerchiamo di rimanere nel mondo della viticoltura. Cosa potrebbe far percepire a un turista proveniente da fuori regione, qualora giunga ad Avellino, di essere arrivati nel capoluogo di una delle massime terre del vino? Il Chianti è il Chianti non solo per la qualità dell’uva, che scevri da provincialismo non ci sentiamo di definire superiore alla nostra, quanto per la corrispondenza che il vino ha con il territorio che lo rappresenta e viceversa. Non sono sufficienti sagre o spazi per vendere un qualunque tipo di prodotto, ma è necessaria tutto quell’insieme insieme di caratteristiche che si riassumono con il termine di marketing territoriale: un connubio complesso e equilibrato di storia, tradizione, senso di appartenenza, attenzione ai dettagli. Non si vende mai solo vino o solo formaggio, si offre un territorio nella sua interezza.
Zero progetti d’insieme: Nessun mercato territoriale può prescindere da un brand univoco che permetta a tutta la provincia di identificarsi come reale eccellenza nell’universo vinicolo. Per capire di cosa stiamo parlando, è utile dar spazio ai numeri. Ecco i risultati dello lo studio condotto dalla Camera di Commercio di Monza e Brianza per il progetto ERI nel trienno 2013-2015 ( Economic Reputation Index) per stilare la classifica dei brand del vinicoli italiani più quotati «sulla base di dati tratti da Registro Imprese, Istat, Istituto Tagliacarne, Federdoc, Ismea e Consorzi di tutela, con un valore del brand calcolato su parametri economici e di immagine, tra i quali i flussi del turismo enogastronomico, il valore dell’export del prodotto, la conoscenza del prodotto stesso all’estero e in Italia, e il valore economico della zona di produzione» .
I top brand con relativi indotti: 1 - Chianti: 1.833.325.000 euro, 2 - Prosecco Valdobbiadene: 1.158.472.000 euro, Montepulciano d’Abruzzo: 1.148.788.000 euro. I nostri tre alfieri non compaiono nemmeno in classifica. Questo perché, a oggi, di un brand univoco che riassuma tutte le produzioni più interessanti, le idee per il futuro, le certezze conclamate della nostra provincia, non c’è traccia. Questo perché, a oggi, un consorzio di viticoltori che rappresenti realmente tutti i protagonisti della provincia, è pura utopia. Questo perché; stando a quanto accaduto all’Expo, la scelta del grande nome, a discapito del progetto d’insieme, ci appare sempre la strada più semplice. Durante la rassegna milanese, infatti, si è dato spazio esclusivamente ai nomi più conosciuti, impedendo con prezzi proibitivi e la mancanza di una regia complessiva, alle medie e piccole aziende di prendervi parte. Eppure, questa doveva essere la vetrina di tutte le eccellenze del territorio, è stata invece l’esaltazione del grandi nomi. Hanno cantato sempre i soliti tenori e, per giunta, senza fare orchestra. Un modo per accrescere ulteriormente il divario tra più grandi e più piccoli. Purtroppo, senza idee e competenze, ogni iniziativa, per quanto animata dalle migliori intenzioni, risulta vana o parziale. Che si chiami Expo e Vinitaly, o soltanto sagra della patata.
Andrea Fantucchio